La clorazione rappresenta una fase indispensabile nel processo di potabilizzazione. Serve infatti a neutralizzare i rischi derivanti dalla presenza di batteri, virus e altri agenti patogeni che potrebbero rendere l’acqua veicolo di malattie o addirittura epidemie. Del resto, com’è noto, proprio la presenza nell’acqua di microrganismi potenzialmente dannosi per la salute umana è stata – e lo è tuttora in molte zone del mondo – un grande problema sanitario. Il cloro presente nell’acqua potabile garantisce la sicurezza a livello microbiologico di ciò che beviamo dal rubinetto di casa.
Come avviene la disinfezione: la clorazione dell’acqua
Per quanto altre fasi del processo di potabilizzazione riducano il fabbisogno di cloro, la disinfezione rimane uno dei passaggi chiave (e obbligatori ). Generalmente l’acqua viene “disinfettata” grazie ad agenti chimici dal potere ossidante e quelli usati più di frequente sono il cloro e i suoi derivati, oppure l’ozono.
Solo i composti del cloro, tuttavia, sono in grado di garantire un’azione che dura nel tempo con un’efficacia che permane anche durante il passaggio nella rete di distribuzione idrica. L’ozono infatti, pur funzionando su microrganismi molto resistenti, non lascia residuo: per questa ragione, la clorazione costituisce un passaggio imprescindibile anche nel caso in cui si ricorra all’ozono.
Cos’é il cloro residuo nell’acqua potabile?
A scoprire il cloro fu, nel 1774, Carl Wilhelm Scheele, che però lo ritenne erroneamente un composto dell’ossigeno e, solo nel 1810, fu riconosciuto come elemento chimico da Humphry Davy. Oggigiorno il dosaggio del cloro nell’acqua potabile è attentamente controllato, per evitare che durante la disinfezione tramite agenti chimici si possano formare dei sottoprodotti nocivi.
Il decreto legislativo 31/2001 e l’ultima direttiva europea 2020/2184, che disciplinano la qualità delle acque destinate al consumo umano e fissano una serie di valori parametro, stabiliscono le soglie di riferimento al decreto legislativo 31/2001 e l’ultima direttiva europea 2020/2184, che disciplinano la qualità delle acque destinate al consumo umano e fissano una serie di valori parametro, stabiliscono le soglie di riferimento anche per i sottoprodotti di disinfezione e per il cloro e i suoi derivati. Tra questi troviamo il cloro residuo, che indica come l’acqua abbia subito un processo di disinfezione che ne garantisce la sicurezza da un punto di vista microbiologico, durante il trasporto nella rete di distribuzione. La normativa italiana non fissa un limite obbligatorio, ma consiglia di attenersi a una concentrazione di disinfettante residuo di 0,2 mg/l.
Quando avviene la clorazione
La filiera di trattamento dell’acqua si conclude necessariamente con la disinfezione. In alcune circostanze, però, si può decidere di effettuare anche una “pre-disinfezione” all’ingresso delle acque da trattare. Questo può essere fatto ad esempio al fine di controllare lo sviluppo dei microrganismi dentro l’impianto stesso oppure per facilitare il funzionamento di altre fasi, come quelle per eliminarne la torbidità (coagulazione e flocculazione).
La quantità di cloro da immettere nella fase finale di potabilizzazione dipende da fattori diversi, tra cui l’origine e le caratteristiche dell’acqua grezza prelevata dall’ambiente e utilizzata dai gestori , che devono far fronte a questo limite. Le opportunità di prelievo infatti sono date e difficilmente modificabili, in particolare in territori in cui la presenza della risorsa è limitata. La qualità dell’acqua prelevata è un fattore già determinato e che non può essere modificato da chi eroga il servizio idrico.
In Italia ci sono luoghi e città privilegiate sotto questo aspetto, pensiamo a Roma che preleva l’acqua delle fonti del Peschiera, o le zone del grossetano che utilizzano l’acqua del Fiora, risorse che, per loro caratteristiche potrebbero essere imbottigliate direttamente senza necessità di trattamenti ulteriori. In altri casi, in particolare per i gestori che utilizzano acque superficiali, la qualità della risorsa dipende da molti fattori, come le caratteristiche del fiume (quelli torrenziali hanno una maggiore variabilità della qualità essendo soggetti ad esempio a intorbidamento in caso di pioggia) oppure le attività antropiche che insistono sulla risorsa stessa, determinando inquinamento di varia natura.
Cloro e sapore
Il cloro residuo infatti impatta decisamente, e negativamente, sulle caratteristiche organolettiche, dell’acqua caratterizzandone di disinfettante sapore e odore. Per i motivi ricordati precedentemente la qualità organolettica dell’acqua che esce dai rubinetti è altamente variabile, ma la qualità intrinseca, quella che ne determina la potabilità e la sicurezza, è garantita in ogni situazione grazie ai processi di potabilizzazione.
Per ridurre il fabbisogno di disinfettante nelle parti finali del processo di potabilizzazione, le fasi di lavorazione si sono arricchite nel tempo di tecnologie che riducono l’impiego di cloro, in particolare nelle fasi di pre-disinfezione. Tra questi, oltre all’ozonizzazione, riveste una particolare rilevanza la filtrazione a carbone attivo granulare e l’utilizzo di membrane, superfici permeabili dotate di porosità ridotta e in grado di rimuovere dai solidi colloidali ai singoli ioni.
Come eliminare l’odore di cloro dall’acqua del rubinetto
Per quanto ridotta, la presenza del cloro nell’acqua del rubinetto è quindi garanzia della sua salubrità. Come detto tale presenza impatta però sulle caratteristiche organolettiche della risorsa e , spesso, è uno dei motivi per cui all’acqua che abbiamo nelle case viene preferita l’acqua imbottigliata. È possibile però ridurre l’odore del cloro attraverso piccoli accorgimenti quali imbottigliare l’acqua in brocche con apertura larga. Il cloro è infatti volatile e, senza alterarne la sicurezza, in poco tempo il problema dell’odore “pungente” viene risolto facilmente.
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