Le parole hanno un peso, soprattutto sul posto di lavoro, perché il linguaggio inclusivo è uno degli aspetti con cui le aziende possono valorizzare l’unicità di ogni dipendente, innescando un cambiamento non solo al loro interno ma anche nell’intera comunità. Nonostante oggi le politiche aziendali di Diversity & Inclusion siano tra le principali sfide per le imprese italiane, nel nostro Paese solo 4 società su 10 hanno definito un piano strutturato su questo tema, dice la ricerca “Future of Work” di Inaz – Osservatorio Imprese Lavoro. A livello europeo Francia e Germania sono le più sensibili in questo campo, secondo il Global Diversity and Inclusion Index, che prende in considerazione le società quotate più inclusive e attente alle diversità. L’Italia è dietro, sebbene qualche buona pratica esista.
Sull’argomento abbiamo intervistato Giovanna Mundo, HR manager e neurolinguista, che si occupa tra le altre cose di formazione del personale. In particolare per Publiacqua, all’interno del progetto “Revolutionary Road” sviluppato dal dipartimento Diversity and Inclusion, ha curato – in collaborazione con la società di consulenza Challenge Network – un programma di quattro net class sul linguaggio inclusivo che entro la fine del 2023 coinvolgerà tutto il personale del gestore idrico toscano, oltre 650 tra lavoratrici e lavoratori. Dagli stereotipi al confronto tra generazioni, dalla comunicazione empatica all’ascolto inclusivo, questa specifica formazione entrerà adesso nel “pacchetto” di corsi previsto per le nuove assunzioni. Ecco cosa ci ha detto Giovanna Mundo.
Perché è importante promuovere nelle aziende percorsi sul linguaggio inclusivo?
Le aziende sono una sorta di “microrganismo”, poiché rappresentano in piccolo una serie di dinamiche che si osservano nella vita quotidiana. Sono il luogo per definizione di interazione e condivisione. Il linguaggio inclusivo è uno degli asset fondamentali per le imprese, perché quanto più un’azienda è capace di valorizzare l’unicità, tanto più è competitiva e pronta a rispondere alle esigenze di un contesto molto complesso come quello attuale.
Una recente ricerca sull’employer branding segnala che una persona su due non accetterebbe un lavoro in un’azienda in cui non c’è un clima inclusivo, un’esigenza soprattutto per i giovani nella fascia 18-25 anni. Tuttavia una richiesta pressante arriva pure dall’interno delle imprese e si lega al quinto obiettivo dell’Agenda 2030, ossia il raggiungimento della parità di genere.
Quanta conoscenza c’è oggi sui temi della Diversity & Inclusion?
La conoscenza è cresciuta, il punto vero è quanto questi progetti abbiano un reale impatto sul contesto. Prendendo come riferimento il Global Diversity and Inclusion Index, un indice che analizza 10.000 aziende a livello internazionale rappresentative di oltre l’80% delle società a capitalizzazione, l’Italia si colloca nella parte bassa della classifica. Il primo Paese in Europa è la Francia, quello con una maggiore stabilità la Germania.
Nonostante ciò esistono degli esempi virtuosi: tra le prime 25 classificate ci sono 7 aziende italiane. I settori maggiormente sensibili sono telefonia, energia, bancari e assicurativo, che storicamente si sono mossi prima su questi temi. Le aziende italiane però faticano ad avere un approccio sistemico e un modello condiviso, poiché spesso ci sono iniziative che si concentrano esclusivamente su un unico aspetto legato all’inclusione, come ad esempio la diversità di genere.
Come parlare un linguaggio inclusivo: quali sono le indicazioni fondamentali
Prima di tutto va premesso che non esiste un “manuale” su cosa fare e cosa no, ma tutto dipende dalla sensibilità verso l’altro che non si deve esaurire nell’elemento linguistico, bensì riguardare in toto il nostro atteggiamento. In secondo luogo la lingua per definizione non è neutra, seguendo un’evoluzione indipendentemente dalla volontà dei singoli. Quella che può essere inclusiva è la capacità di arrivare in modo neutro a quante più persone possibile, usando le regole esistenti per comunicare all’altro una maggiore consapevolezza dell’unicità di ogni individuo.
Ad esempio evitiamo il cosiddetto “maschile sovraesteso”, sfruttando le forme di doppia flessione (“carissime e carissimi”, invece del semplice “carissimi”), soprattutto nel linguaggio scritto, e prediligendo questa soluzione all’asterisco o alla schwa (ǝ), perché sono convenzioni grafiche imposte che non hanno un suono. Un’alternativa è utilizzare delle perifrasi: invece di dire “Grazie per esserti iscritto”, scegliere espressioni come “Grazie per la tua iscrizione”; piuttosto che iniziare un convegno con “Benvenuti” o “Grazie per essere venuti”, diciamo “Vi do un caloroso benvenuto” oppure “È molto bello avervi qui”. Ulteriori accortezze sono i sostantivi generici (“personale in azienda” al posto di “collaboratori”; “persone” invece che “i dipendenti”) e i pronomi indefiniti (“coloro che hanno vinto la borsa di studio” anziché “i vincitori della borsa di studio”).
Come sono accolti i corsi di inclusione e linguaggio inclusivo dal personale delle aziende?
Non nascondo che c’è una certa resistenza al cambiamento da parte degli uomini, implicita ed esplicita. Secondo gli ultimi dati sul gender gap, in Italia avremo bisogno di 132 anni per equiparare gli stipendi tra uomini e donne, procedendo a questa velocità. D’altro canto, nei corsi di formazione è possibile catalizzare l’attenzione di tutte e di tutti se i temi di D&I non vengono legati soltanto al singolo aspetto della diversità uomo-donna, ma alla diversità in generale.
Se ci pensiamo bene ognuno di noi è diverso dagli altri per età, orientamento sessuale, provenienza, studi, religione e per tanti altri aspetti, quindi almeno una volta nella vita ognuno di noi si è sentito diverso ed escluso, anche solo per il mancato invito a una festa o per essere rimasto in panchina durante una partita a calcetto con gli amici. Al contrario assistiamo a una maggiore accettazione dei temi legati alla diversità se parliamo di questa sensazione universale di esclusione, impegnando le persone a non farla vivere più agli altri, comprendendo che stiamo lavorando per un miglioramento globale: per la collega, il figlio, il dirimpettaio sgarbato per aver parcheggiato in modo non corretto, per le persone che abbiamo vicino.
Allora quale potrebbe essere un buon proposito “inclusivo” per il 2024?
Prendo in prestito una delle mie frasi preferite: “Le parole possono essere proiettili o squadre di soccorso”. Il buon proposito potrebbe essere scegliere le parole con grande cura, sapendo che lasciamo sempre un segno nella vita degli altri. Chiediamoci, molto più spesso di quello che succede quotidianamente, se abbiamo sparato un proiettile o lanciato una squadra di soccorso.