Sono le ore 1.30 del 4 novembre 1966 quando l’Arno sfonda gli argini a sud di Firenze. Alle 2 il Mugnone straripa allagando le Cascine e l’ippodromo. Alle tre, non resistendo la contropressione prodotta dal livello del fiume, le fognature granducali iniziano a esplodere con getti che raggiungono anche un metro di altezza. L’acqua rompe intanto gli argini alla Nave a Rovezzano e dilaga nella Piana di Varlungo e San Salvi. Inizia il dramma per i cinquantamila fiorentini che abitano nel quartiere di Gavinana, uno dei più bassi della città, che resterà isolato per quasi tre giorni. Nella zona di Santa Croce, l’acqua inizia a inondare via de’ Benci. Tra le quattro e le cinque giunge alla Nave di Rosano il colmo della piena. L’esondazione in riva sinistra è pressoché istantanea e travolge San Niccolò, Santo Spirito e San Frediano con livelli inizialmente modesti ma che, in poche ore raggiungono anche i quattro metri. In riva destra vengono a sommare i contributi dati dallo straripamento di Santa Croce con quelli delle inondazioni a monte della città, dando luogo ad un intricato groviglio di torrenti vorticosi. Successivamente l’Arno straripa anche nella zona del Lungarno Acciaioli e di quello alle Grazie.
Nei giorni successivi si conteranno 70 mila famiglie evacuate, 6 mila negozi devastati, 20 mila auto investite dal fango e 35 morti, un numero che poteva essere molto maggiore se l’esondazione non si fosse verificata di notte con la gran parte dei cittadini e dei turisti che dormivano ai piani alti degli edifici. A 56 anni dall’alluvione di Firenze, la domanda però resta la medesima: siamo al sicuro dal ripetersi di eventi simili?
“Quella del ‘66 è stata la tempesta perfetta, un evento meteorologico incredibile che si è unito all’assenza di un sistema moderno di monitoraggio e di soccorso. Allora non esistevano la protezione civile e il volontariato organizzato”, dice Erasmo D’Angelis, oggi presidente della Fondazione Earth and Water Agenda (EWA), con alle spalle una lunga carriera legata alla gestione dell’acqua e alla lotta al dissesto idrogeologico, anche alla guida della struttura governativa di “Italia sicura”. Sul disastro del 1966, D’Angelis ha pubblicato libri e curato il docufilm L’alluvione mai vista, mentre adesso sta lavorando al quarto raduno internazionale degli Angeli del Fango, per riportare in città il prossimo anno chi arrivò dall’Italia e dall’estero per aiutare la culla del Rinascimento a rialzarsi dopo una calamità che “ha allagato 3.000 ettari, l’area più estesa mai colpita da un’alluvione a livello nazionale”, chiarisce.
L’alluvione di Firenze del 1966: mancavano i sistemi di prevenzione e allerta
“L’Arno ha sempre avuto per così dire un brutto carattere – spiega D’Angelis – come gli altri grandi fiumi italiani ha un regime di tipo torrentizio. In momenti di siccità, praticamente sparisce perché dalla sorgente non esce più acqua e la scorsa estate si sarebbe seccato anche a Firenze, se non fosse stato per la diga di Bilancino. Basta però qualche giorno di piogge battenti per provocare delle piene potenzialmente catastrofiche”. La prima piena documentata risale al 1117, sottolinea, l’ultima di una certa gravità al 1966, annus horribilis in Italia quando Firenze divenne il simbolo di oltre mille comuni del Centro Nord alluvionati, da Udine a Brescia, fino a Trento e Venezia. Nel corso di otto secoli l’Arno ha allagato 180 volte le città che attraversa, in un terzo dei casi le esondazioni hanno interessato una vasta area urbana, 8 volte in maniera distruttiva.
Quello del ‘66 fu però l’evento più devastante, come testimoniato ancora oggi dai segni e dalle lapidi poste in città a ricordo dell’alluvione. “All’epoca il fiume non era classificato in alcuna categoria di rischio idraulico e i sistemi di allerta erano medievali, c’erano solo le campane delle chiese e un centinaio di pluviometri le cui misurazioni, prese a mano, erano registrate di settimana in settimana. Non esistevano né informazioni precise, né la capacità di fare previsioni, nonostante l’altissimo rischio. Sebbene nei giorni precedenti al 4 novembre il Valdarno fosse già alluvionato, non c’era un’allerta a Firenze”.
Il progetto delle casse di espansione dell’Arno
Se oggi si ripresentasse una situazione meteorologica estrema come quella di allora Firenze e la Toscana centrale sarebbero più al sicuro da un’alluvione di tale portata, osserva il presidente della Fondazione EWA, grazie alle opere che sono in corso di conclusione a monte del capoluogo. “Dall’indomani dell’alluvione è iniziato un lunghissimo periodo di promesse legate agli interventi di messa in sicurezza, come le casse di espansione ideate per la prima volta nel 1970. Per decenni però è stato fatto poco: sono state rialzate le spallette in città ed è stata costruita la diga di Bilancino, ma quest’ultimo progetto è stato pensato soprattutto per proteggere Firenze dalla siccità. L’invaso lamina solo un 15% delle acque dell’Arno in piena”.
Un impulso decisivo ai lavori è arrivato nel biennio 2014-2015, con 120 milioni di euro stanziati per le casse di espansione del Valdarno (Pizziconi, Restone, Prulli e Leccio) dalla Struttura di Missione di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico, “Italia sicura”, guidata dallo stesso D’Angelis insieme a Mauro Grassi. A oggi sono state terminate due casse di espansione e una porzione della terza, mentre si stima che serviranno almeno altri 18 mesi per finire gli interventi. A pieno regime consentiranno di contenere almeno 40 milioni di metri cubi di acqua, a cui si aggiunge l’intervento per l’innalzamento della diga di Levane. Ci sono stati poi investimenti per le casse di espansione a monte di Pisa e per lo scolmatore di Pontedera, che nel 2019 hanno salvato dall’inondazione la città della torre pendente.
La situazione quindi è cambiata, afferma D’Angelis. “Oggi possiamo dire che Firenze e la Toscana centrale con queste opere sono molto più al riparo da un’alluvione catastrofica come quella del ‘66. Ora i cittadini devono riscoprire il loro fiume, tornare a viverlo come un’opportunità e non come una minaccia. Inoltre l’Arno è sempre più pulito: Firenze è la prima e unica area metropolitana italiana ad aver raggiunto la depurazione delle acque reflue al 100%. L’altra cosa da realizzare a mio avviso riguarda la memoria: creare un museo degli Angeli del Fango e dei soccorritori di tutte le alluvioni. Firenze se lo merita, se lo meritano i giovani di allora che giunsero in città da tutto il mondo. È anche una loro richiesta”.
Le nuove alluvioni e un territorio fragile
Intanto i cambiamenti climatici con l’intensificarsi degli eventi meteo estremi pongono nuove sfide. “In Italia circa 11 milioni di persone sono a rischio di alluvione e frane – fa notare D’Angelis – nel nostro Paese sono censite 628 mila frane, delle 750 mila registrate in tutto il continente europeo. Già questo dato dà l’idea di una situazione complessa, di un territorio italiano per due terzi collinare e montuoso che è fragile di fronte a delle precipitazioni che potremmo definire a carattere esplosivo, piogge concentrate nel tempo e nello spazio. Pericoli nuovi con temporali autorigeneranti e tifoni veri e propri che si verificano all’improvviso”.
Per questo è indispensabile aumentare le difese delle aree urbane. “Sono necessari nuovi sistemi drenanti da impiegare nelle nostre città, piccole aree di laminazione nelle periferie, oltre alla manutenzione e al controllo costante dei sistemi di scolo e delle fognature con nuove tecnologie. Le risorse non mancano, dal Pnrr ai fondi nazionali ed europei, si tratta adesso di definire i piani (e questo tocca alle istituzioni), oltre a risolvere i problemi per la messa a terra dei cantieri che risulta ancora molto difficoltosa soprattutto nel Meridione. Bisogna fare presto perché i nuovi rischi idrogeologici sono evidenti”.
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